Intervista con la sig.ra Elda Stefa Naraçi, figlia di Kostaq Stefa, l’interprete e la guida dei medici militari americani, i quali effettuarono un atterraggio di emergenza in Albania con il loro aereo, durante la Seconda Guerra Mondiale nel 1943.
La sig.ra Elda oggi vive con la sua famiglia a Trieste.


Correva l’anno 1943, lunedì, 8 novembre.
Scenario: Seconda Guerra Mondiale.
Un aereo americano di trasporto, C-53, con a bordo 30 americani, di cui 13 medici, 13 infermiere e 4 membri dell’equipaggio, lasciava Catania e si dirigeva verso Bari, per poter assistere i soldati americani feriti in guerra.
A causa delle gravi condizioni atmosferiche e dell’inseguimento da parte degli aerei tedeschi “Messerschshmitt”, l’aereo americano è costretto a effettuare un atterraggio di emergenza in un paesino sperduto albanese. I membri dell’equipaggio non avevano idea, dove avessero atterrato con il loro aereo, poiché la bussola dell’aereo era guasta. Il paesino si chiamava Belsh (Elbasan, Albania).
Dopo svariati giorni di cammino, accompagnati da un gruppo di corrieri partigiani guidati da Hasan Gina, un ex-allievo di Kostaq Stefa, il gruppo raggiunge Berat, dove i membri del gruppo si sarebbero suddivisi nei vari rifugi, che erano stati assegnati loro presso alcune famiglie del luogo.
Kostaq Stefa, di Berat, è la persona che avrebbe fatto loro da guida, sarebbe diventato il loro interprete, visto che conosceva perfettamente l’inglese e, contemporaneamente colui, nella casa del quale, avrebbero trovato riparo e ospitalità due delle infermiere americane.
Kostaq aveva terminato gli studi a Tirana presso l’Istituto Tecnico Americano-albanese che in seguito sarebbe stato denominato “Harry Fultz”, traendo il nome dal fondatore e dirigente dell’istituto e dove Fultz stesso insegnava. Kostaq si era diplomato brillantemente, per cui gli fu assegnato un posto di professore in quella sede.

Le infermiere americane, Agnes Jensen Mangerich e Vilma Lytlle, si sentirono salvate: scampato il pericolo si trovarono a loro agio nella casa di Kostaq, aiutate anche dalla moglie di Kostaq, la signora Eleni Stefa. Le due donne ospitanti riuscivano a comunicare in inglese, e non era una cosa da poco per l’Albania di quel periodo. Discendevano da una famiglia colta e di grande spessore intellettuale di Berat. Kostaq aveva conseguito gli studi in Inghilterra per poi ottenere la qualifica di Masterscout, conferitogli da Sir Robert Smyth Baden-Powell in persona, poi aveva studiato a Firenze, in Italia. Sua moglie Eleni è stata una delle prime cinque ragazze albanesi di Berat che frequentarono l’Istituto Pedagogico “Normale” di Korçë, per poi diventare insegnante. Eleni, dal canto suo, non aveva un livello avanzato di inglese, ma si faceva capire bene con le infermiere americane. E quell’amicizia tra donne creò una forza straordinaria, generando tra loro uno spirito di mutua assistenza e quell’intesa destinata a durare nel tempo.
Il 9 gennaio 1944, dopo 63 giorni di avversità, eludendo i militari tedeschi, la maggior parte degli americani: medici, infermiere e membri dell’equipaggio dell’aereo, attraverso la collaborazione dei servizi americano-inglesi, riuscirono a raggiungere le coste meridionali italiane. Kostaq fu sempre la loro inseparabile guida fidata. Lui li accompagnò fino alla penisola di Karaburun, Albania.
Fu l’8 settembre 1947. Sulla porta di casa dell’interprete albanese di Berat, Kostaq Stefa, colui che offrì un tetto alle due infermiere americane ed affiancò il loro gruppo, facendo loro da guida ed interprete, si sentirono dei colpi violenti. Erano dei militari albanesi che gli comunicarono l’ordine di arresto!
Kostaq venne accusato e arrestato come “agente degli americani”: una terribile farsa. Quel periodo coincise tra l’altro anche con vari ordini di arresto per molti tecnici albanesi a Tirana, che prestavano servizio presso l’Istituto Tecnico Americano “Fultz” .
Inizia in questo modo il suo calvario, e quello della sua famiglia: della moglie e dei suoi cinque figli. Accusato di collaborazionismo con gli americani che, improvvisamente, si erano trasformati da alleati in nemici dello stato albanese.
La mattina del 3 marzo 1948, Kostaq, assieme ad altri tre connazionali, portati davanti al plotone di esecuzione, vengono fucilati.
A lui che i partigiani comunisti avevano assegnato l’incarico d’interprete e guida degli americani durante la Guerra e che l’unica “colpa” che si portava sulle spalle era quella di aver studiato e lavorato con gli americani nell’Istituto Tecnico Americano di Tirana, in quella scuola in cui avrebbe avuto come suo allievo lo stesso Mehmet Shehu, il numero due della nomenclatura comunista albanese, venne fucilato dagli stessi comunisti albanesi.
Salve signora Elda! Le porgo il mio più caloroso benvenuto su ALBANIA NEWS.
Bentrovati e anzi, benvenuti anche voi da me!
Mi rendo perfettamente conto che quello che tratteremo in seguito, è un argomento doloroso per lei. Ma, penso che allo stesso tempo, le persone come suo padre dobbiamo ricordarle, poiché parlando e scrivendo le loro storie, onoriamo il loro ricordo.
Indubbiamente.
Mio padre nacque in una famiglia di patrioti albanesi. Lui era nipote di Kostandin Kristoforidhi e nipote di Gjergj Stefa, delegato di Berat alla Lega di Prizren. Discendente da una famiglia di patrioti, mio padre stesso fu un noto patriota e intellettuale. Aveva studiato nell’Istituto Tecnico americano – albanese di Tirana, in seguito denominato “Harry Fultz”. Mandato dall’Istituto, era andato a Londra, dove aveva ricevuto la preparazione da boy scout e, da parte di Sir Robert Smyth Baden-Powell in persona, era stato promosso Scout master. In seguito aveva studiato anche a Firenze, Italia.
Conosceva l’inglese tanto quanto l’albanese. Lo stesso valeva anche per l’italiano.
A Berat, mio padre lavorava al provveditorato agli studi e prestava servizio presso la Croce Rossa, dove era un eccellente attivista. In quel periodo aiutò i “çam“, i ciamurioti ad affrontare le loro avversità nella lotta per difendere i loro territori.
Alcuni membri della nostra famiglia erano partigiani. Il mio unico zio paterno era partigiano, tre fratelli di mia madre lo erano pure loro. Erano di quei partigiani che credevano di servire una giusta causa e i più alti ideali di giustizia e di Patria.
Voi eravate 5 fratelli e sorelle in famiglia. Lei è classe 1939. Quindi, all’età di circa 9 anni al momento tragico della scomparsa di suo padre, la sua fucilazione.
In che modo, vostra madre ha permesso di farvi sentire il meno possibile l’assenza di vostro padre e in quale età esattamente lei ha realizzato la vera causa della sua scomparsa?
Credo sia stata proprio vostra madre a raccontarvi tutto dell’attività del papà e dell’episodio che determinò l’ingiusta e macabra fine della sua vita …
Sì, io ero piccola e inizialmente non avevo ben realizzato cosa fosse accaduto. Questo anche perché nostra madre, per evitarci dei traumi, si dimostrò molto delicata e attenta con noi bambini. Chi capì tutto, fu invece il nostro fratello maggiore, Alfred, che in quel periodo aveva tredici anni ed era molto intelligente e sveglio. Lui è stato molto vicino alla mamma. Io inizialmente non capii più di tanto della vicenda, perché fui cresciuta dalla zia paterna a Durazzo, ma mia sorella Tina e mio fratello Vangjel, che rimasero a Berat, loro soffrirono di più.
Quel giorno – era la mattinata del 3 marzo – fu proprio Alfred, (lui classe 1934) a quel tempo adolescente, a essere mandato da nostra madre, alla sessione investigativa dove tenevano incarcerato nostro padre. Il giorno prima, il 2 marzo ci avevano promesso che a lui era stata concessa la grazia e non lo avrebbero più condannato a morte, ma all’ergastolo. Questo, ce lo avevano comunicato direttamente, in quanto alla mamma avevano concesso proprio il giorno 2 marzo, un incontro di 4 minuti con il papà.
Infatti lui stesso aveva detto alla moglie: “Vedi che dobbiamo avere fiducia nella giustizia dello stato? Visto che mi trasferiranno a breve al carcere di Burrel, portami dei vestiti puliti di ricambio, il mio cappotto pesante ecc …”
Quando gli avevano tolto le manette per l’incontro, la mamma aveva notato i suoi polsi e le sue mani insanguinate …
Quel giorno, la mamma aveva chiesto il permesso alla sua collega a scuola, l’insegnante di suo figlio, per lui, per poter mandarlo dal papà. Lei stessa invece aveva continuato la lezione nella sua classe.
Perciò, la mamma aveva comprato dei pasticcini da portare in segno di ringraziamento ai militari. Appena Alfred arrivò, con i dolci in mano e li porse ai militari, loro, gli chiesero di chi fosse figlio e gli risposero con irruenza, lanciandoli i dolci in faccia: “Vai via di qua, tuo padre è stato fucilato ieri sera!”
Lui ritornò a casa piangendo a singhiozzi. Nostra madre si trovava a scuola con i suoi alunni, era incredula. Tornò lei stessa alla casa circondariale e, confermando la notizia macabra, esclamarono: “Ora devi solo dire: Evviva il nostro Partito!”.
In seguito, stando alle raccomandazioni di nostra madre, quando parenti ed amici venivano per farci le condoglianze in casa, proprio per non rattristarci o spaventarci, noi bambini ci mandavano dai vicini o altrove, per non assistere ai loro pianti.
Quando nostro padre morì a soli 42 anni, noi eravamo piccoli e nostra sorella minore Tina, quello stesso giorno della sua fucilazione, aveva compiuto 1 anno. Tina non ha mai festeggiato il compleanno in vita sua!
Per la prima volta, ha iniziato a festeggiare il compleanno all’arrivo della democrazia.
Ma si sa, crescendo, impari delle cose: capii anche quel che la mamma non ci aveva confessato apertamente, tant’è vero che un giorno, dopo un’esternazione emotiva, dissi a lei: “Non ti affaticare mamma, è sufficiente che tu ci dica che quel maledetto 3 marzo, nella nostra famiglia è esplosa una bomba!”.
Lei mi guardò con un’aria profondamente addolorata.
Ma devo ulteriormente porre l’accento che nostra madre, in nostra presenza, non ha mai criticato gli esponenti del governo albanese o il dittatore Enver Hoxha. Non voleva aggiungere altro dolore a quello esistente, non voleva aggiungere odio alla la tristezza che ci portavamo dentro.
Nostra madre vestì di nero a lutto, all’età di 34 anni. Addirittura mise un foulard nero in testa. Quando la direttrice della scuola l’aveva vista, le aveva detto: “Non puoi venire a scuola con questo foulard nero in testa! Te lo dovresti togliere, se non vuoi venire licenziata!”
La mamma scelse di tenere il foulard nero e venne licenziata! Noi ci esponemmo alla sorte.
Ma, nostra madre era molto capace e preparata nella sua professione.
L’ avrebbero riabilitata all’insegnamento dopo l’istituzione del Congresso di turno del Partito. Quindi lei era rimasta senza lavoro per alcuni mesi: da marzo a novembre di quell’anno.
Ciò che accadde a vostro padre, costituisce in un certo modo anche la delusione da parte di molti ex-partigiani albanesi, che credevano in una determinata e giusta causa e non avrebbero mai voluto l’instaurazione della dittatura. Non era stato quello il modo di governare che loro avrebbero voluto per l’Albania, non era stato quello il motivo per cui tanti loro compagni avevano dato la loro vita …
E’ così?
E’ esattamente così. Molti partigiani onesti e le loro famiglie, anche molti di quei elementi che facevano parte dell’istituzione denominata “La Difesa”, che in seguito avrebbe preso il nome del famigerato “Sigurimi i Shtetit” (Sicurezza Nazionale), che perseguivano un ideale, sarebbero rimasti delusi da episodi del genere.
Alcune persone, che frequentavano questi ambienti e istituzioni, erano nostri parenti ma, ormai completamente terrorizzati, non riuscivano più a pensare in autonomia e lo esprimevano dicendo: “Non spetta a noi giudicare, queste faccende le conosce solo il nostro Partito!”.
So che avete ricevuto in famiglia delle lettere di ringraziamento dagli americani portati in salvo da vostro padre.
In quale anno iniziarono ad arrivarvi le prime lettere e quale fu la vostra sensazione?

Agnes, una delle infermiere americane di quell’operazione, colei che era anche stata ospitata a casa nostra, fu la prima ad arrivare in Albania, in seguito all’instaurazione della democrazia. Questo avvenne nell’ottobre del 1995, lei aveva 75 anni.
Agnes si recò immediatamente a Belsh, Elbasan, accompagnata da un’insolita sensazione: un misto di nostalgia, emozione, tristezza. Arrivò nel luogo esatto in cui, nel lontano 1943, il loro aereo era stato atterrato e ripercorse con dolore tutto ciò che accadde in quei giorni.
Da lì, chiese con insistenza di recarsi alla casa della famiglia Stefa a Berat, in quella famiglia che le offrì ospitalità durante la Guerra, nella famiglia dell’interprete Kostaq, quindi a casa nostra!
Raggiunse casa nostra con affetto e con una nostalgia enorme. Incontrò nostra madre esprimendo tutto il suo affetto e commozione, senza smettere di ringraziarci. Le vennero in mente i tempi in cui, in quella casa, durante la Guerra lei trovò rifugio e quando disse rivolgendosi a mia madre: “Oh, signora, finalmente troviamo un vero letto per poter dormire, dopo le svariate traversie del lungo tragitto percorso a piedi tra le montagne innevate!”.
Le venne in mente anche l’episodio in cui, a un loro collega, per via delle tante miglia fatte a piedi, gli si erano consumate le scarpe e Kostaq gliele aveva fatte riparare, perché i suoi piedi avevano iniziato ad andare in cancrena…
A un certo momento sentimmo Agnes che, rivolgendosi a nostra madre, disse: “Ma i tedeschi dove lo trovarono Kostaq? Quando l’hanno ucciso?”.
“Oh, no Agnes”, rispose nostra madre, “Kostaq non è stato ucciso dai tedeschi, ma dai comunisti albanesi!”.
Lei rimase impietrita.
Agnes instaurò un rapporto confidenziale con nostra madre e mantenne con lei una corrispondenza continua.
Quando le nostre famiglie giunsero nel 1997 in Italia, a Trieste, dove chiedemmo asilo politico, Agnes, dagli Stati Uniti, appena seppe di questo fatto, fecce tutto il possibile ad interessarsi di noi presso l’Ambasciata Americana a Roma, per poter sollecitare la pratica e rendere possibile la sua accettazione da parte dello stato italiano. E, infatti, così fu. La nostra domanda di asilo politico fu colta immediatamente.
Perciò, subito dopo l’arrivo di Agnes in Albania da noi, e dopo la sua promessa che, al suo immediato ritorno negli Stati Uniti, avrebbe fatto tutto il possibile di prendere contatto con gli altri suoi colleghi, che parteciparono a quell’operazione in Albania durante la Guerra e di informare loro che lei stessa si era recata da noi, ci aveva incontrati personalmente in Albania, iniziarono i contatti da parte della nostra famiglia con gli altri ex- medici militari americani, protagonisti di quella operazione. Loro iniziarono a mandarci delle lettere di ringraziamento, le quali noi oggi le conserviamo con molto affetto nell’archivio della nostra famiglia. Alcune copie di queste lettere possiamo inviarle anche a voi, a corredare questo articolo.

Sappiamo che i media americani hanno scritto, a fine gennaio di quest’anno, sulla scomparsa di Harold Hayes , il medico militare americano, ultimo superstite di questa odissea in Albania durante la Guerra.
Quanto si è interessato lo Stato americano, quando voi eravate ancora in Albania, a proposito di questa vicenda?
Lo stato americano, mentre eravamo ancora in Albania, quindi prima che venissimo in Italia nel ’97, si è interessato di noi attraverso la sua rappresentanza diplomatica accreditata in Albania o meglio, attraverso le Loro Eccellenze, gli ambasciatori.
L’ambasciatore William E. Ryerson fu colui che partecipò alla grande cerimonia che si tenne in onore di nostro padre nel 1993 a Berat, – quando furono scoperti i suoi resti… – per il rito del suo degno funerale e la sepoltura delle sue spoglie nel Cimitero dei Martiri di Berat. In quella cerimonia, tutta Berat ci rese onore, senza distinzioni politiche o religiose.

L’ambasciatore Ryerson prese parte in seguito al rito della sepoltura, anche al pranzo funebre, quello è solito in Albania, offrire dai familiari di un defunto per amici e parenti che hanno preso parte alla cerimonia funebre.
Questo è usuale quando una persona è appena morta e sepolta, ma noi lo abbiamo considerato così, nonostante il decesso di nostro padre, fosse avvenuto tanti anni prima.
Un pò di tempo dopo, accadde un brutto episodio, che vide come protagonisti, dei fanatici del sistema, i quali profanarono la tomba di nostro padre.
Ne fu immediatamente informata l’ambasciatrice di turno degli Stati Uniti d’America in Albania, S.
E Marisa Lino. Lei si occupò personalmente in modo che la tomba di nostro padre venisse costruita di nuovo, citando:
“Che gli venga fatta una nuova e degna tomba, proprio come merita una persona rispettabile, di cui spoglie riposano al Cimitero dei Martiri della città di Berat!”
Quando nell’Ambasciata Americana a Tirana prese incarico S.
E ambasciatore Arvizu, noi eravamo già trasferiti in Italia, a Trieste. Ma, visto che a iniziativa del Sindaco di Berat, Fadil Nasufi, ad una via della nostra città, fu assegnato il nome di nostro padre, si tenne una cerimonia e per questa occasione anche noi, da Trieste, raggiungemmo Berat.
Dopo di questo, l’ambasciatore Arvizu è venuto diverse volte a casa nostra, con molto affetto e rispetto, esprimendo premura e interesse per la nostra famiglia.
Assieme a nostra madre e a tutti noi, abbiamo ripercorso i ricordi di quel periodo. Io avevo allestito una piccola mostra con le foto di famiglia, negli stessi ambienti di casa nostra.
Infatti, si è sorpreso scorgendo nelle foto, accanto a mio padre, Mehmet Shehu – Primo Ministro albanese nel periodo della dittatura – e nel sapere che lui era stato allievo di mio padre nella Scuola tecnica americana di Tirana.
Addirittura, lui insisto’ che fosse preparato un documentario su questa storia e il documentario fu proiettato in nostra presenza, di quella dei familiari di Hasan Gina – il corriere partigiano che aveva accompagnato gli americani – di tanti amici e parenti e dello stesso ambasciatore Arvizu.

D’altro canto, Agnes, l’infermiera accolta a casa nostra in quel periodo, sia come cittadina americana, sia come protagonista di quest’odissea, ha scritto un libro nel quale si narra la vicenda. Altri due libri sono stati scritti da cittadini americani a proposito di questa storia, oltre al libro scritto dalla nostra famiglia.
Ma dovrei sottolineare con rammarico che il libro scritto dalla scrittrice Cate Lineberry, non possiede né la qualità, né l’esattezza e né la veridicità che invece contiene il libro scritto da parte di Agnes Jensen Mangerich.
Infatti, lo stesso giornalista che di recente ha scritto su “The New York Times ”, sul decesso dell’ultimo superstite americano di quella missione in Albania, Harold Hayes, non ha molta esattezza nel suo articolo, in quanto lui si è servito dei dati del libro di Cate Lineberry e non di quelli di Agnes Jensen Mangerich, la quale è più coerente alla realtà albanese del periodo sopraccitato che tratta, alla generosità degli albanesi che hanno condiviso qual poco pane di mais e del formaggio che avevano con gli americani, quindi, più coerente al senso di ospitalità degli albanesi, che è un dato di fatto che ci caratterizza realmente.
Cogliamo l’occasione per porre alla famiglia di Harold Hayes, le nostre più sentite condoglianze per la sua scomparsa.
Lo Stato albanese invece, quanto si è preso cura di voi? E’ stato riservato il dovuto rispetto e interesse, in proporzione all’importanza della vicenda?
Nostro padre durante il governo Berisha, è stato insignito del riconoscimento “Martire della Democrazia”. Le sue spoglie riposano nel Cimitero dei Martiri. Lo stato ha dimostrato cura a costruire per lui una degna tomba. Ci ha rispettato molto la nostra città, Berat. Berat ci è stato vicino e ha onorato la nostra famiglia, per il nostro passato doloroso e, allo stesso modo, per i meriti della famiglia, particolarmente quelle di nostro padre. Una via di Berat porta il suo nome.
Vostra madre Eleni Stefa, rispettabile signora, insignita dell’onorificenza “Insegnante del Popolo”, ha scritto un libro omaggio alla memoria del marito, vostro padre.
La Signora Stefa è stata una donna intellettuale albanese, una delle prime insegnanti donne a Berat, dalla rinomata capacità di scrittura e narrazione, avrebbe meritato una vita diversa.
Come ha vissuto lei il periodo della preparazione del libro?
Era emozionata durante tutto il tempo, e fu felice quando riuscì a terminare il libro. Dopo aver osservato con attenzione la copertina del libro, commossa fece un sospiro, dicendo: “Povero Kostaq, che destino hai avuto!”.
Normalmente lei leggeva da sola il libro ma c’erano dei momenti che, quando indossava gli occhiali e tenendo conto della sua età avanzata, ad un certo punto cominciava a stancarsi, allora continuavo io la lettura… Lei scomparve all’età di 102 anni.
Ma, quando aveva compiuto 100 anni, a Trieste fu organizzata da parte del Comune, una grande festa per lei, così come è solito festeggiare in Italia i centenari e le centenarie. La cosa l’aveva rallegrata tanto.

Sua madre, Eleni, conosceva personalmente Enver Hoxha?
Sì, lo conosceva.
Lo ha conosciuto ai tempi della loro gioventù, a Korçë, (Coriza). Lei frequentava l’Istituto Pedagogico “Normale” e, dopo aver terminato il percorso di studi, diventò insegnante. Invece Enver studiava al Liceo, sempre a Coriza.
La scuola che mia madre frequentava era un istituto femminile, ma avendo frequentato la scuola nello stesso periodo si erano conosciuti ed erano diventati compagni di studi. In questo consisteva la loro conoscenza.
So anche che nel 1939, i miei genitori si incontrarono casualmente con Enver Hoxha a Bari, in un albergo.
In quell’albergo Enver si era recato, in quanto doveva incontrare sua sorella con il marito, Bahri Omari, che alloggiavano lì.
Come faceva a sapere allora, la stessa sorella di Enver Hoxha, per ordine di chi sarebbe avvenuta anche l’uccisione del suo consorte …!
Secondo lei, il popolo albanese “quanto” e “come” conosce la propria storia?
Oh, in maniera parziale e storpiata, non la realtà …

Sotto quale aspetto lei pensa di assomigliare a suo padre, signora Elda?
Penso di assomigliargli, prima di tutto, nella passione che nutro per le lingue, così come lui, anch’io sono appassionata di lingue straniere. Io ho studiato molto bene la lingua russa e ho lavorato per tanti anni come interprete di questa lingua, sia in Albania sia in Italia. Conosco l’inglese e l’italiano. Ho studiato da autodidatta, tenendo presente il tempo a disposizione e la mia età…
Inoltre, sono appassionata di letteratura. Ho letto i grandi autori russi, cosa che ai miei tempi, si considerava non solo passione, ma anche un privilegio perché i libri erano difficili da trovare o mancavano del tutto.
L’intervista è disponibile in lingua albanese e inglese