Costretto a fuggire dalla sua terra natia, l’Albania, obbligato ad abbandonare i suoi cari e la sua città d’origine, Scutari, dove iniziò gli studi umanistici presso il convento dei padri francescani, Lin Delija arrivò in Italia, dedicandosi, da subito, a ciò che più di tutto lo rendeva vivo: la pittura.
Si iscrisse, grazie ad una borsa di studio, all’Accademia di Belle Arti di Roma, quando vi insegnavano Bartoli e Mafai, e cominciò la sua produzione sterminata di opere in un appartamento, del palazzo di Via di Ripetta n. 54, dove, all’epoca, abitava anche il cantante Renato Zero. Questo intenso periodo di studi, però, per il Maestro albanese non fu il primo; aveva, infatti, già studiato in ben due scuole d’arte affermate (frequentò, cioè, il liceo artistico di Herzg Novi prima e, poi, studiò presso l’Accademia di Belle Arti di Zagabria) ma, comunque, ritenne necessario, trovandosi nel “paese delle belle arti” -come gli piaceva chiamare l’Italia-, apprendere, anche qui, nuove nozioni e altri concetti fondamentali che perfezionassero le sue tecniche e competenze artistiche, soprattutto dal momento che, all’epoca dei suoi studi a Roma, vi erano maestri di notevole talento, stimati in primis anche dallo stesso Delija.
Da lì a poco, Lin Delija si trasferì in un piccolo paese nella provincia di Rieti, Antrodoco, dove tra amicizia ed indifferenza dei cittadini lo accolse la popolazione locale. Qui il maestro si dedicò esclusivamente alla produzione artistica (ed è qui ed a Città ducale, paese poco lontano, che, per l’appunto, si può ritrovare tuttora la maggior parte della sua creazione pittorica) ed all’insegnamento, aprendo l’Accademia d’Arte “Carlo Cesi”, presso la “Villa Mentuccia” – situata sulla via Salaria per l’Aquila, sempre presso il comune di Antrodoco.
La relazione tra l’Artista ed il paese di Antrodoco fu ambigua, d’amore e di odio: Delija, infatti, visse sempre tra l’affetto di un’esigua parte della popolazione, ma soffrì la fame come un semplice immigrato verso cui era facile, troppo facile, girare le spalle; in un’intervista rilasciata a Gjon Gjondrekaj, Lin Delija, parlando di questo nebuloso paese, diceva: “Io vedo Antrodoco come una valle di cenere”, cercando poi, subito dopo, di riprendere questa sua dura affermazione con una raffinatissima gentilezza, che solo un uomo con un’immensa sensibilità umanistica può avere, sostenendo, appunto, con un sorriso sarcastico: “ma, comunque, qui ho anche qualche amico”. Tuttavia, trovandosi in questo paese, in questa continua tensione di odi et amo, la tristezza devastante per la lontananza dalla sua terra natia era costante; la convinzione di non poter tornare nella sua patria, per questioni politiche ben note a tutti, di non poter rivedere neppure le tombe dei suoi cari lo struggeva terribilmente.
Dopo diverso tempo passato tra i monti reatini, appena crollato il comunismo di Enver Hoxha, quell’impedimento di tornare tra la sua gente si infranse: Delija ebbe, infatti, la possibilità di tornare in patria ma, a differenza di quanto desiderato ed immaginato, il viaggio si rivelò notevolmente diverso. Dopo poco, infatti, Lin Delija si recò nuovamente ad Antrodoco e, malvolentieri, raccontava di questa sua ultima esperienza nel Paese delle Aquile. Forse, in realtà, il sogno del Maestro Delija era quello di tornare nella sua cara terra come “Artista Riconosciuto” ma, purtroppo, la storia non concede che i sogni si realizzino con facilità o, almeno, non del tutto: Delija fu accolto in patria come “Artista Nazionale Riconosciuto”, ironia della sorte, solo dopo la sua morte; similmente ad altri suoi colleghi nella storia dell’arte, dunque, pure Delija fu “ri-accolto” dai suoi connazionali solo in un secondo momento, quando, addirittura, gli fu concessa l’onorificenza più alta dello stato albanese: gli onori della patria.
Tuttavia, facendo un passo indietro, c’è da dire che Delija tornò e rimase fino agli ultimi suoi giorni nel reatino.
La cittadina di Antrodoco ospitò ed “abbracciò” Lin Delija e, per questo, il Maestro, essendo un personaggio di indiscussa raffinatezza intellettuale, sapeva di esser fortunato, infatti, pure se visse sempre nella miseria, come un immigrato emarginato, si era creato intorno a lui un piccolo nucleo di amici e allievi. La sua fortuna, infatti, si può notare proprio nel fatto che la comunità locale, in un modo o nell’altro, in maniera discutibile o meno, lo accolse. Per rendere chiara la vera essenza del problema va ricordato, inevitabilmente, che Antrodoco è un paese montano medio- piccolo, situato su una via commerciale (la via Salaria) e, come tale, l’ottica predominante è quella del localismo, tendenza/ideologia che esula dagli schemi razziali e razzisti tradizionali per eccesso, individuando l’altro-da-sé non solo nello straniero ma, addirittura, nel cittadino del paese confinante; dunque, l’alieno che può togliere a “me abitante del luogo” qualcosa, che è mio di diritto dal momento che sono-di-qui (anche se mi spetta meno dello straniero per merito, anzianità, capacità o quant’altro), dunque, addirittura il cittadino del paese limitrofo e, di conseguenza, lo straniero (quello reale, quello che proviene da territori extra-nazionali), nella prospettiva “localista”, è una negatività al quadrato: è per questo che, in uno scenario simile, lo sguardo dell’altro, del paesano in questione, gravoso su uno straniero reale, è doppiamente negativo e annichilente nei confronti dell’immigrato.
È, dunque, proprio per l’essere all’interno di questa logica che, però, l’esser-stato-inserito, più o meno, in questa comunità montana ed aver avuto una cerchia di amici e di allievi (se pur ridotta), credo sia stato, nei confronti di Lin Delija, un segno d’affetto concreto da parte della comunità tutta, dal Maestro sicuramente riconosciuto. Ma l’affetto che questa cittadina dimostrò nei confronti del Maestro Delija non si riduce solo a questo aspetto sociologico; la stima ed il riconoscimento nei confronti di Delija, in quanto artista, si espresse, nella cittadina del reatino, effettivamente anche a posteriori, dopo la sua morte; infatti il paese dedicò al Pittore un Museo Comunale (dedicato, oltre che a lui, anche ad un altro noto artista locale: Carlo Cesi) ed un’Associazione Culturale che si impegna a diffondere e a propagare l’Arte del Maestro in questione anche a livello internazionale, collaborando, per esempio, con Art Unin Albania (Fondazione Culturale, centro di raccolta dell’espressione della cultura schipetara a tutto campo, che vede come membri principali personalità di altissimo livello, come Gjon Radovani, Agron Gjekmarkaj, Ardian Ndreca, Persida Asllani, etc. che si impegnano a promuovere la cultura albanese, sia valorizzando il passato della propria nazione, per esempio, nella pubblicizzazione del Maestro Lin Delija a livello internazionale, sia, allo stesso tempo, sostenendo e diffondendo la cultura contemporanea del Paese delle Aquile).
Ma torniamo alla vita del Maestro nel reatino.
Durante la sua permanenza ad Antrodoco, c’è, infine, da ricordare che Lin Delija ricevette numerose visite da suoi connazionali di indiscussa rilevanza mondiale, come Madre Teresa di Calcutta (notizie su ciò possono essere ritrovate nel testo di Polovina Ylli,“Rai & Albania. Una grande presenza nella storia di un popolo”), Padre Zef Pllumi, il noto basso lirico Luke Kacaj e lo scultore, ancora attivo nel fiorentino, Mark Lukolic.
Grazie al sostegno di questi amici, che rinforzarono e tennero costantemente vivo il senso di identità albanese di Lin Delija, il Maestro rimane tutt’oggi una parte fondamentale della storia della cultura pittorica dell’Albania, che trova, all’infuori di Delija, almeno in Italia, un’espressione concreta ed affermata a livello internazionale, principalmente, nel celebre Ibrahim Kodra.
Eppure, vivendo tra povertà e “nostalgia” -una nostalgia degna dell’interpretazione letteraria del termine, “nostos algos”, non sentirsi mai a casa propria-, Lin Delija si dedicò, come sempre, con tutto sé stesso alla pittura, che divenne quasi un’ossessione, una necessità per andare avanti: una necessità per vivere, una necessità a livello esistenziale, non certo economico; è risaputo che pochissimi acquistavano le sue opere (come, purtroppo, troppo spesso successe anche ai più noti artisti) e, molto spesso, trovato l’acquirente, se il compratore avesse nutrito poca sensibilità nei confronti delle opere del Maestro e lui se ne fosse accorto, lo avrebbe cacciato via con rabbia, pur non sapendo, poi, come fare a procurarsi la cena.
La pittura, dunque, diventò lo scopo della sua vita, una pittura che andava verso una maturazione sempre più convinta e complessa, arrivando a produrre una ritrattistica- psicologica, una paesaggistica che superava in maniera indiscussa la mera riproduzione. Scendendo più a fondo, cercava di cogliere un “oltre” anche nei paesaggi e nelle nature morte ed, infine, un’Arte Sacra che tentava una connessione tra la sua terra d’origine, i vari personaggi ed i vari scenari del paese di adozione ed i momenti fondamentali del Cristianesimo, a lui tanto caro.
Tuttavia è da notare che secondo alcuni esperti, come il Direttore della Galleria d’Arte di Tirana, Rubens Shima, il periodo più “interessante” della produzione pittorica del maestro scutarino è quello del decennio degli anni Sessanta. C’è da dire che questa posizione il Maestro non l’avrebbe mai accettata, avendo cercato, per tutta la sua vita, una crescita continua e tendente al miglioramento – discorso, questo, valido, molto probabilmente, per qualunque altro artista che spenda o abbia speso, come Delija, tutta la propria vita a perfezionare la propria arte – ed è anche per questo che, permettetemi un piccolo excursus, molto spesso si creano diverbi tra i critici d’arte e gli artisti. L’Artista difficilmente potrebbe accettare di individuare un momento migliore in un determinato periodo della sua vita: ciò comporterebbe accettare una consequenziale de-valorizzazione del resto della sua opera generale; il critico (o l’esperto) cerca, invece, di individuare proprio quel momento migliore della produzione artistica di un autore, per poterlo lanciare o, comunque, identificare ed inquadrare nel mondo e nel mercato dell’arte, avendo essi, ovviamente, le competenze specifiche per questo tipo di lavoro.
Ma, concludendo, vorrei esprimere un parere sulla “questione Lin Delija”: si sta muovendo ancora qualcosa a vari livelli, in Italia, in Albania e forse anche altrove e, dunque, è evidente e plausibile che la storia del Maestro, ancora, non ha messo un punto alla sua narrazione, continuando a volare tra il Paese delle Aquile e le montagne reatine. In attesa di un riconoscimento globale dal mondo dell’arte che, probabilmente, sarebbe già dovuto arrivare da tempo ma, comunque, ci auguriamo arrivi il prima possibile.
Articolo di Paolo Calandruccio