Il volume – edito dalla Casa editrice Giuntina di Firenze nel 2010 – pubblica gli atti di un convegno svoltosi a Bari nel gennaio del 2010 dal titolo: «Gli ebrei in Albania sotto il fascismo. Una storia da ricostruire», al quale hanno partecipato numerosi studiosi di discipline e provenienze diverse.Il convegno ha permesso di ricostruire il quadro degli studi e delle fonti archivistiche per la storia degli ebrei in Albania ed ha presentato gli esiti di alcune recenti ricerche.
Nel suo saggio «Dall’Impero agli Stati. Gli ebrei nei Balcani e in Albania fra la seconda metà dell’Ottocento e la vigilia della Seconda guerra mondiale» Laura Brazzo fa una ampia panoramica sulla presenza ebraica nei Balcani e in Albania durante quel lungo periodo, dal 1850 al 1939.
E’ di particolare interesse il richiamo alla situazione nell’Impero Ottomano sul finire del ’700. In quegli anni un italiano in viaggio ad Istambul scriveva nel suo diario:«Uno straniero che ha conosciuto l’intolleranza di Londra e Parigi, deve essere molto sorpreso nel vedere una chiesa fra una moschea e una sinagoga, e un derviscio a fianco di un frate cappuccino…ciò che è perfino più sorprendente è notare che spesso questo spirito di tolleranza prevale in genere tra la gente, per cui si vedono Turchi, Ebrei, Cattolici, Armeni, Greci e Protestanti conversare insieme, su argomenti d’affari o di piacere, con tale armonia e buona volontà come se fossero dello stesso paese e della stessa religione».Infatti erano tutti, seppure in modi diversi, con diritti e privilegi diversi, cittadini del medesimo paese, tutti quanti sudditi dell’Impero ottomano.
Nel corso dell’800 e fino al 1912-1913 gli ebrei nei Balcani erano raccolti attorno ai maggiori centri urbani ottomani o ex ottomani – da Belgrado a Salonicco, da Sofia a Monastir e poi a Costantinopoli e a Smirne. Altri vivevano a Zagabria, Sarajevo e Spalato. Essi nutrivano verso il governo turco un sentimento di riconoscenza per il “rifugio” offerto dopo la cacciata dalla Spagna del 1492, per la libertà di professare la propria fede e per l’opportunità di esercitare le professioni nelle quali erano meglio versati.
Nel capitolo del suo contributo «Gli ebrei in Albania: una storia diversa (1912-1939)» l’Autrice sottolinea che la storia degli ebrei in Albania si distingue da quella degli altri paesi dell’ex impero Ottomano per almeno due ragioni: per la discontinuità della presenza; per l’origine romanista (greca) e infine per il fatto che non costituivano una comunità ma solo delle piccole “colonie”: infatti non furono riconosciuti come minoranza religiosa.
In Albania gli ebrei godevano di una grande tranquillità che derivava sia dalla relativa indifferenza degli albanesi verso la religione che dalla esiguità del numero: nel 1920 risiedevano in Albania tra i 90 e i 120 ebrei, tra Valona, Argirocastro ed Elbasan; nel 1930 il numero era salito a 204, con una presenza anche a Tirana.
Nel 1937-1939 all’interno della Società delle Nazioni si pensò di fare dell’Albania la sede di accoglienza per gli ebrei profughi tedeschi. Addirittura un uomo d’affari inglese, Leo Elton, nel 1935 si recò in Albania e tracciò le prime linee di un progetto: creare in Albania una alternativa alla Palestina. Il progetto, che ovviamente non fu realizzato, rimane una interessante testimonianza delle idee e dei progetti che circolavano in Europa negli anni ’30 attorno all’Albania.
Nel 1937 risiedevano in Albania 191 ebrei, come risulta da una richiesta formulata dal Ministero degli Interni albanese a tutte le Prefetture del paese.
I contributi di Nevila Nika, Direttrice dell’Archivio Centrale dello Stato della Repubblica d’Albania «La presenza degli ebrei nella documentazione archivistica albanese» e di Silvia Trani «La storia dell’Unione italo-albanese. Un’indagine sulle principali risorse documentarie conservate in Italia» illustrano la storia degli ebrei albanesi dal punto di vista esclusivamente archivistico. Nevila Nika conclude il suo scritto affermando che la preziosa documentazione posseduta dall’Archivio Centrale di Stato albanese mette a fuoco che, nel corso dei secoli, i rapporti e la convivenza tra albanesi ed ebrei sembrano caratterizzati da una normalità scevra da pregiudizi.
Giovanni Villari ne «Il sistema di occupazione fascista in Albania» e Michele Sarfatti in «Le condizioni degli ebrei in Albania fra il 1938 e il 1943» affrontano più nello specifico gli anni dal 1938 al 1943.
Da un punto di vista temporale – scrive Villari – l’Unione tra l’Italia e l’Albania può essere divisa in tre periodi: il primo va dalla Pasqua del 1939 all’inizio della campagna di Grecia: fu il momento delle maggiori trasformazioni politico-istituzionali e del maggior dinamismo economico italiano in Albania. Il secondo periodo copre tutto l’arco della campagna di Grecia, quando vennero alla luce tutte le carenze e le manchevolezza dell’apparato politico-militare fascista. Circa un terzo dell’Albania fu occupato dalle truppe elleniche e dovette subire le distruzioni dovute al passaggio del fronte. La campagna, conclusasi con l’appoggio determinante dell’alleato tedesco, portò alla creazione della Grande Albania, con l’annessione del Kosovo e del Dibrano. Nell’ultimo scorcio del 1941 prende avvio la terza ed ultima fase, fino al tragico epilogo dell8 settembre 1943.
Michele Sarfatti illustra i primi risultati della sua ricerca su due aspetti specifici della vicenda degli ebrei in Albania: la situazione giuridica generale e la politica verso i profughi alla vigilia dell’invasione italiana; la situazione giuridica generale sotto l’occupazione italiana.
L’Albania si dichiarò indipendente nel 1912. Nel giovane stato le religioni godevano di una condizione di piena uguaglianza, come fu stabilito nella Costituzione del 1 dicembre 1928. Principio confermato sotto l’occupazione italiana nella Costituzione del 3 giugno 1939.
Secondo il censimento del maggio 1930, in Albania vi erano 204 ebrei, su una popolazione di circa 1 milione di abitanti. Secondo quanto scritto nel memoriale dell’ebreo albanese Josef Rafael Jakoel «Gli israeliti in Albania», alla vigilia dell’occupazione italiana dell’aprile del 1939 gli israeliti albanesi e stranieri non erano più di 150, suddivisi in circa 33 famiglie.
Egli così descrive le loro condizioni lavorative ed economiche: « Si occupavano principalmente di commercio, che andava dal commercio all’ingrosso fino al piccolo commerciante al dettaglio. C’erano pure piccoli commercianti ambulanti che giravano per i villaggi e anche con bancarelle nei mercati delle città. Inoltre c’erano spedizionieri, un dentista a Valona, due farmacisti a Shkodra, qualche artigiano e soltanto un impiegato statale».
Nel 1938 la condizione degli ebrei europei precipitò. La legislazione antisemita, sino ad allora presente solo nella Germania nazista, fu introdotta in vari altri paesi, tra cui l’Italia. Ciò causò una notevole crescita del flusso dei profughi, che in piccolissima parte si diressero in Albania (secondo le statistiche solo 31 furono gli ebrei che scelsero di emigrare in Albania).
Né il governo di re Zog né quelli successivamente insediati durante l’occupazione italiana vietarono la concessione della cittadinanza albanese agli ebrei stranieri. Nel complesso, conclude Michele Sarfatti, «per volontà del fascismo italiano, gli ebrei cittadini albanesi in Albania furono colpiti da una normativa meno dura e meno complessa di quella emanata dal fascismo stesso in Italia contro gli ebrei cittadini italiani. Attuando ciò, Roma si comportò diversamente da come agì nelle regioni balcaniche annesse nel 1941 (ove estese la normativa vigente nella metropoli) e da come agirono Berlino in Austria, e poi in Serbia, e Sofia in Macedonia».</em >In appendice al suo contributo Sarfatti pubblica le bozze di due decreti antiebraici del 14 maggio1939 e del 2 giugno 1939, approntati ma non emanati dalla Luogotenenza Generale d’Italia in Albania.