Prima di lasciar prendere forma a ciò che a queste righe seguirà, e che definirei al contempo come racconto riflessivo ed esplorativo, quasi una sintesi allusiva in grado di racchiudere un repertorio d’immagini, di voci ed un contenuto morale, potremmo dire che la scelta di proporre due aneddoti scaturisca dal loro carattere affabulatorio. Affabulatorio, perché probabilmente, riprendendo le parole di Calvino, alla stessa maniera delle fiabe, essi rappresentano «una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi».
Addentriamoci allora nella storia e raccontiamo d’un uomo, padre di famiglia albanese, arrivato in Italia alla fine degli anni Novanta, che per inserirsi e guadagnare le rimesse destinate al paese d’origine, si occupava di ristrutturazioni nelle piccoli abitazioni di clienti incontrati nei più svariati modi. Raccontiamo di quella volta in cui, come d’abitudine, si ritrovò a maneggiare pennelli e rifinire intonaci alla presenza d’un’anziana signora che con la televisione accesa sui telegiornali dell’epoca, sembrava fare la veglia a quell’uomo. Di come sullo schermo si presentò una delle quotidiane cronache sugli invasori albanesi, su quella “brutta razza” e dello sguardo della donna che si rivolse all’uomo. E di ciò che immediatamente seguì: la fatidica domanda sulle sue origini difronte a cui egli, con l’accortezza che contraddistingue la sua “razza” in queste situazioni, si affrettò ad andare in scena per entrare nel personaggio e diventare Mikhail: un lavoratore arrivato in Italia dalla Russia, il paese in cui aveva lasciato la famiglia in cerca d’un futuro migliore.
Insolito destino il suo. Probabilmente, perché il nome di quel paese aveva spesso riecheggiato dentro ai confini della sua patria, là dove il rispetto dei diritti umani non sempre sapeva volare alto e dove prima del disordine, per lungo tempo l’ordine della vita era rimasto a soggiacere alle “liberta” del comunismo. Ed ora, quello stesso eco sembrava reiterarsi, e trasformarsi questa volta in espediente ingegnoso.
E proprio qui, si addensa l’incontro fra due alterità, fra un anziana signora che regala ad un lavoratore russo dei vecchi giocattoli da portare ai figli come souvenir italiano, al ritorno in patria, ed un uomo, lo stesso lavoratore russo, in grado di mutare e confondersi. E quei giocattoli? Quelli erano la ricompensa di Mikhail per non essere albanese. In fondo, lui se li era guadagnati sul campo, con la sua abilità di rendersi «una, nessuna, centomila» volte un “ospite gradito”.
Non soffermiamoci e proseguiamo raccontando d’una donna albanese arrivata in Italia nell’estate del Duemila e che nel Paese trascorre la sua vita nei quartieri milanesi, inserendosi nel tessuto sociale e travalicando barriere linguistiche attraverso una spiccata dote di pronuncia, quasi a confondersi con i paesani. Raccontiamo di quell’episodio in cui, difronte ad un gruppo di italiani, la donna venne presentata da una signora altrettanto italiana che ben conosceva. “Lei è albanese, però vale più di centomila italiani”: così l’avrebbe presentata. Ecco che d’improvviso il muro si erige e si dispiegano un’assimilazione ed un’integrazione dell’alterità rimaste incompiute. A frapporsi è una barriera di vetro, di quelle super-moderne e antisfondamento, anti-incontro, direbbe qualcuno. Sguardi e gesti riconoscibili, somiglianti ad altri già vissuti, senza però incontrarsi davvero.
E allora è così che un po’ rassegnati e talvolta soffocati, a volte stranieri ed altre italiani, alcuni si rimettono in fila. Qualcuno in fila al supermercato con la consapevolezza di chi, gli sforzi e le incertezze degli anni, sulle spalle li sente, e che ora si risolleva difronte a quel carrello che sempre più si riempie. Altri in file notturne che presto vedranno giorno: chi per regalare impronte, chi per un primo appuntamento, i più per afferrare un permesso di soggiorno. E più in là, alcuni in piedi in fila a sognare, e qualcun altro per una toccante dedica nella prima pagina del giornale, questa volta però aspettando giù, in fondo al mare. L’importante è viaggiare sempre leggeri. In fondo, il loro è un tempo dell’attesa e in esso, inutili diventano gli ulteriori pesi. Ci saranno poi i fortunati che da qualche parte arriveranno, e là nessun protocollo, perché fra altri panni da vestire ed inappropriati pregiudizi da scucire, sarà l’arte dell’adattamento l’unica chiave per sopravvivere al cambiamento.
Basterebbe tuttavia aguzzare la vista per scorgere fra gli ammucchi di strade incrociate, strane “insegne” su cancelli e porte di qualche palazzo del Nord in fondo al viale: “Non si affitta agli stranieri”. Per poi distinguere sotto un ulteriore tratteggio quasi sbiadito pronto a dirci “Non si affitta ai meridionali”, probabilmente perché in un tempo diverso, anche loro brutti, sporchi e talvolta criminali. Ora però, quale colpa attribuire ad un antiquato proprietario che d’un’orda albanese e criminale aveva appreso attraverso le cronache di un autorevole telegiornale? Sarà questo l’inizio d’un altro racconto, uno dei molti, di un paese, a volte due, ancora da raccontare. E sarà il continuo di un ascolto che a sua volta diventerà trasporto, perché accade poi, dentro ad un racconto, di trovare posti nuovi per nuove cose, e di ripensare differenti traiettorie di senso da dipingere per altrettanti diversi modi di esistere.
Ana Salikaj, studentessa laureata in Scienze della comunicazione, nata a Durazzo e residente da anni in Italia nei quartieri milanesi.