Si può raccontare la storia delle tradizioni attraverso i costumi? A Vaccarizzo Albanese questo è reso possibile da una deliziosa mostra permanente del costume arbëreshë, che ripercorre la storia della donna dal matrimonio alla morte.
Nel piccolo paese arbëreshe, lo sforzo di alcuni cittadini che più ci credono nella conservazione delle tradizioni ha dato vita a una curiosa e interessante esposizione di costumi tradizionali, elementi tra i più caratteristici della cultura italo-albanese in Calabria, insieme alle ritualità religiose. I costumi di Arberia si differenziano a seconda della località, per i diversi colori che li caratterizzano, o per un accessorio particolare che li distingue. A spiegarmi tutto questo è Maria Paolina Chinigò, studiosa dei costumi arbëresh e discendente di Girolamo De Rada, con il contributo di Francesco Perri, ricercatore storico.
Mostra e non Museo
Francesco Perri: La mostra è stata istituita nel 1984, nel periodo in cui ero sindaco di Vaccarizzo. Inizialmente, erano solo gigantografie di tutti i costumi arbëreshe appartenenti a tutti i paesi. Dopo di che, le gigantografie sono state sostituite dai costumi veri e propri. In realtà, qualcuno definisce questa
esposizione indicandola come museo, ma non lo è. Esiste una bel progetto di trasformazione, che al momento nessuno prende, stranamente, in considerazione.
Due parole sugli abiti tradizionali
Maria Paolina Chirigò: Noi arbëreshe amiamo i costumi, perché rappresentano l’iniziazione del cammino della donna: quando ella indossava il costume nuziale per la prima volta, era come se ricevesse un’incoronazione e le venisse riconosciuto un ruolo.
La donna arbëreshe, rispetto a quella calabrese, ha avuto una posizione familiare e sociale differente; ha sempre lavorato, per esempio, dando un contributo molto forte alla famiglia. In qualche modo, in casa era la regina, aveva il comando, nonostante l’uomo arbëreshe fosse assolutamente testardo. Certo, che il ruolo della donna nel nucleo familiare non poteva prescindere da alcuni fattori culturali, come la besa, per esempio e oltre a questo la donna non aveva diritto all’eredità, alla spartizione dei beni. Per questo motivo, quando contraeva matrimonio le veniva data la dote, proporzionata a ciò che le sarebbe spettato come terreni o proprietà.
Si donava un corredo molto ricco, in base alle possibilità della famiglia, ma anche i meno abbienti cercavano di dare qualcosa, visto che il resto spettava tutto dei figli maschi.
Il costume più importante era quello della sposa, fatto con un tessuto molto particolare, con l’ordito in seta e la trama in oro. Era una stoffa molto costosa e i costi erano tutti a carico della famiglia della ragazza.
Il vestimento della sposa si svolgeva secondo una vera e propria cerimonia; tutto il paese era in festa, con canti e balli. Anche il fidanzamento era un vero e proprio rito: la famiglia dello sposo andava per la prima volta a casa della sposa per stipulare un contratto in piena regola, al quale bisognava tener fede e nel quale venivano seguite per filo e per segno le direttive del Kanun.
Nel periodo di tempo tra il fidanzamento e il matrimonio, si ricamava tutto il corredo, si stabiliva anche la quantità da preparare, in base alla ricchezza della famiglia. Era, infatti, a sei a sei, a otto a otto, a dodici a dodici, a ventiquattro a ventiquattro, (si intendono i pezzi), lenzuola, asciugamani e fazzoletti di cotone bianco da mettere in testa quando si faceva il pane, oppure sacchetti sempre in cotone, per la conservazione della farina e del grano. La domenica precedente il matrimonio, il corredo veniva esposto in casa. Si posava sulle sedie, sul letto e la prima a entrare in casa era la suocera, che doveva verificare se tutto
corrispondeva a quanto scritto.
Tornando al costume della sposa, esso veniva usato solo il giorno del matrimonio e nelle occasioni importanti. Era costituito da due sottane in raso e da ricami fatti in oro. La sottoveste ha una parte superiore di lino e quella inferiore di un cotone più grezzo, più caldo. Le strisce di oro poste nella parte inferiore del costume erano un elemento molto importante, in quanto identificativo della ricchezza della famiglia: più la famiglia era ricca, più la striscia era alta. Chi non aveva possibilità economiche, si faceva prestare l’abito da qualche amica.
Quello definito il secondo abito, invece, era utilizzato dai meno abbienti: dopo il matrimonio, si usava molto di più, anche per andare o messa o a trovare le amiche.
Una nota a parte merita il costume tipico di Vaccarizzo con il grembiulino fatto a pieghe, che si differenzia da quello di Macchie e San Demetrio, che mantiene una linea non stirata e piuttosto cadente.
Un’altra caratteristica del costume del nostro paese è il corpino molto bello, con delle pieghe fatte apposta per reggere il seno e questo permetteva alle donne di sfoggiare un décolleté bellissimo.
Il vestito della vedova, invece, si indossava alla morte del marito; in realtà, quando la moglie accompagnava il marito al funerale, indossava l’abito della sposa. Una volta tornata a casa, lo metteva via e vestiva con quello della vedova, quindi solo di colore nero. La nonna di mio marito era molto benestante e quando è morta le hanno fatto indossare anche gli ori e non è stata l’unica, tanto che molte bare sono state profanate per rubare le ricchezze.
Francesco Perri: Io faccio ricerca soprattutto su Vaccarizzo e i paesi arbëreshe. Ho pubblicato libri riguardanti i nostri paesi, affrontando le più importanti tematiche a 360° e in particolare sulle ricerche storiche. I miei sono volumi che parlano di memoria.
Io sono l’ideatore della sagra del costume arbëreshe. Sono sindaco di questo paese quando nasce l’idea di raccogliere tutti i costumi delle donne, perché non esiste il costume maschile, non è mai esistito. L’idea era quella di valorizzare la figura femminile e il costume, come elementi identificativi della storia stessa della comunità. Nel momento in cui la donna indossava il costume della sposa, diventava il centro della famiglia, era lei la conduttrice del nucleo familiare anche a livello educativo. Si sposava e moriva con quel costume: ogni paese dava all’abito un elemento identitario.
La mostra è un’idea grandiosa per spiegare le differenze della nostra cultura attraverso gli abiti tradizionali. Purtroppo, la sagra del costume non c’è più.