In alcuni luoghi del Sud Italia, esiste un’antica diffidenza contro gli Albanesi e, più precisamente, contro gli Arbëreshë, ovvero quel gruppo etnico albanese che si stabilì nel Mezzogiorno per lo più nel XV secolo (ma, con ondate successive, anche in altri periodi, fino al XVIII sec.) dopo aver lasciato la Patria invasa dai Turchi e, da allora, vive nell’Italia centro-meridionale in paesi che hanno conservato la lingua, i costumi e tantissimi aspetti della cultura materiale ed immateriale della nazione di origine.
Questa “diffidenza” ha origini proprio nel periodo in cui gli Albanesi giunsero, profughi, dall’altra sponda dell’Adriatico.
Le popolazioni tra le quali i nuovi arrivati si stabilirono assunsero ben presto un atteggiamento ostile –del quale ora spiegheremo i motivi- che si è tramandato fino ai giorni nostri. Eppure, se chiedeste oggi a chi esprime questa ostilità i motivi da cui ha origine, non vi saprebbe rispondere.
Vediamo di sfatare qualche luogo comune.
Quegli Albanesi che non sopportavano l’idea di vivere in una Patria oppressa dai prepotenti invasori Turchi, decisero di emigrare in massa nel Regno di Napoli. Sapevano che avrebbero trovato l’accoglienza benevola del Re Ferrante d’Aragona. Questi, alla morte di Skanderbeg aveva sollecitato la vedova Donika e il figlio Gjon a trasferirsi nel Regno -dove avrebbero avuto tutti i privilegi nobiliari che il sovrano precedente, Alfonso d’Aragona, aveva concesso a Gjergj- ma aveva anche fatto altri importanti doni (in termini di feudi e di titoli) agli eredi dell’eroe albanese. Questo perché il Re, come aveva scritto in alcune lettere a Donika e Gjon, li considerava dei familiari, visto il debito di riconoscenza che la Corona aragonese aveva nei confronti del grande Giorgio. Il grande condottiero, infatti, nell’estate del 1461, aveva letteralmente salvato il trono e la libertà stessa di Ferrante, durante il conflitto che era scoppiato tra il sovrano e i grandi feudatari del Regno di Napoli che avrebbero voluto sul trono Renato d’Angiò. Ferrante era assediato, con le sue truppe, a Barletta e solo l’arrivo di Skanderbeg, che aveva firmato una temporanea tregua di sei mesi con il sultano Maometto II e si era imbarcato con 1000 cavalieri e 2000 fanti ([1]) alla fine di agosto ed era sbarcato nei pressi della città pugliese, consentendo al sovrano aragonese di avviare una riscossa che lo portò a sconfiggere i nemici e a riprendere solidamente in mano le redini del Regno.
Per questo, l’Aragonese fu sempre riconoscente a Giorgio e alla sua famiglia, ma tenne in grande considerazione anche gli Albanesi, combattenti apprezzati soprattutto come cavalleria leggera, per le loro doti di velocità ed efficacia nelle manovre: quegli stradioti che furono assoldati dai più grandi condottieri della penisola italiana nel XV secolo, oltre a far parte stabilmente, per lungo tempo, dell’esercito della Repubblica di Venezia.
In quei decenni, tante terre del Mezzogiorno erano rimaste deserte a causa di eventi bellici e di pestilenze. Re Ferrante favorì il ripopolamento di molte aree da parte degli Albanesi, attraverso una generosa politica di donazioni e privilegi fiscali (come l’esenzione per un certo numero di anni da gabelle e prelievi straordinari).
Spesso, i nuovi arrivati ottenevano la “licentia populandi” ovvero la concessione sovrana di abitare in villaggi abbandonati, usufruendo delle risorse legate al loro possesso. In alcuni casi, ebbero il permesso di costruire nuovi insediamenti. Il più delle volte, gli Albanesi dovettero accordarsi con i feudatari (alcuni dei quali erano vescovi o abati di ricchi conventi) delle terre e dei borghi nei quali si trasferivano, stipulando con loro dei “Capitoli”, ovvero dei patti sottoscritti presso un notaio che regolavano i reciproci diritti, fissando da un lato i privilegi dei vassalli (il rispetto di usi e consuetudini di natura solitamente legata allo sfruttamento delle risorse naturali
della zona, esenzioni fiscali ecc.) e dall’altro il limite del feudatario nel richiedere loro prestazioni o imporre tributi ([2]).
Non mancavano gruppi che conducevano un’esistenza “nomade” ed altri che vivevano in abitazioni di fortuna, costituite da capanne in legno, che venivano magari incendiate all’arrivo dei funzionari della Corona o del feudatario ([3]), per dimostrare la propria condizione misera ed evitare il pagamento delle gabelle.
I feudatari ecclesiastici e laici furono all’inizio favorevoli a questa ondata migratoria, che metteva a disposizione uomini per dissodare le terre incolte e garantire produzioni agricole e introiti fiscali di varia natura (anche se, abbiamo visto, limitati da vari privilegi).
Le comunità albanesi si integrarono con difficoltà. Si trovavano in una terra straniera, senza più la speranza di tornare un giorno in Patria, avendo perso ogni bene tranne la famiglia, i ricordi, lo spirito guerriero e l’orgoglio di aver difeso con successo, per 25 anni, agli ordini di Giorgio Castriota, l’intera Cristianità dall’avanzare delle armate ottomane. Era comprensibile che non si sottomettessero volentieri alle imposizioni delle autorità laiche e religiose e che reagissero ai tentativi di sopruso, spesso e volentieri ricorrendo alle armi, qualche volta anche a sproposito. Questo, ovviamente, accadde soprattutto quando cominciarono ad attenuarsi e a scomparire le franchigie che avevano ricevuto all’arrivo nella nuova patria.
Per questo cominciarono gli atti di ostilità dei baroni ma anche dei funzionari regi.
Un decreto del viceré Pedro Alvarez de Toledo, marchese di Villafranca, datato 4 settembre 1539, imponeva agli Albanesi di abitare in “terre murate” per poterli tenere sotto controllo oltre che per determinare con precisione il numero di componenti dei “fuochi” ([4]), evitando la mobilità e le intemperanze delle comunità immigrate. Nel 1564, gli Albanesi continuavano ad essere accusati di furti e altri delitti più gravi, al punto che il viceré Pedro Afán de Ribera, duca di Alcalá, impose che non usassero sella, briglie, speroni e staffe per cavalcare -con una pena di cinque anni di galera per i trasgressori- al fine di ostacolare le possibilità di sfuggire ai tutori dell’ordine pubblico ([5]).
Pare che gli Albanesi, per aggirare il divieto, abbiano inventato un altro tipo di sella, il “basto a croce”, per cavalcare lo stesso agevolmente ([6]).
Nel frattempo, anche le popolazioni locali cominciavano a guardare con antipatia le comunità albanesi: queste, secondo loro, occupavano terre fino ad allora deserte, nelle quali ci si poteva recare senza problemi a raccogliere legna, ad attingere acqua, a far pascolare gli animali e così via. Con l’arrivo dei nuovi concessionari, questi usi venivano di nuovo attribuiti alla comunità di pertinenza, quindi cessavano importanti vantaggi per chi ne aveva, fino ad allora, usufruito gratis.
Certo, qualche episodio di intemperanza gli Albanesi lo avranno anche compiuto, ma la cattiva considerazione che li circondava non era certo meritata: «È evidente che in una società rozza, misera, misoneista, qual era quella calabrese del tempo, la tendenza a fare degli albanesi il capro espiatorio di qualunque situazione, addossando loro ogni genere di colpa su cui rivalersi dovesse essere assai forte. specie da parte delle autorità locali che potevano scaricare su di essi i malumori delle popolazioni indigene» ([7]).
Col passare dei decenni, per di più, le condizioni di vita degli Albanesi era andato gradualmente peggiorando. Perduti gli iniziali privilegi, questi dovettero affrontare le vessazioni dei
funzionari feudali, favorite dall’indifferenza dei baroni che, a partire dal ‘600, erano per lo più forestieri appartenenti alla borghesia mercantile ([8]).
Diverse colonie albanesi di Calabria ([9]) e di Sicilia ([10]) indirizzarono alla Corte di Napoli richieste per ripristinare gli antichi benefici concessi da Ferrante d’Aragona, oltre a ridiscutere coi feudatari i Capitoli che regolavano i reciproci rapporti.
Dobbiamo, ora, aggiungere anche un altro elemento di frizione: quello tra le colonie albanesi e il clero cattolico locale che fece pressione in tutti i modi, con le buone e con le cattive, per convincere gli abitanti ad abbandonate il rito greco-bizantino, riuscendo in molti casi ad avere successo. «E veramente era cosa miserabile, che tutte le colonie greche del regno venisser facilmente disturbate nelle particolari solennità de’ sagrificj, nell’amministrazion de’ Sagramenti, nel dar sepoltura Ecclesiastica, secondo il rito, a’ loro defonti, e nel portar la Croce greca fuor di lor Chiesa. Per i quali atti di religione venivan messi in contribuzione da’ Vescovi, e dalle Dignità di varie Collegiate Chiese de’ Latini; attalchè spesso impoveriti trasandavan quello, che non potean come nativo costume abbandonare, il novello per alcun verso non sapendo abbracciare» ([11]).
Anche in questo caso, gli Albanesi reagirono: «Con che dal Papa istesso ([12]) chiese il Vescovo appresso il Vicerè mediazione, ed ajuto per vedere in effetto posto, e ben osservato quanto venisse in lor favore disposto in Roma; posciacchè pari provvidenze di Leon Papa X diciotto anni innanzi intimate a’ Vescovi, e Prelati d’Italia erano cadute dalla loro osservanza, e parea, come fossero sparse al vento.
Papa Paolo allora, trovando giuste le doglianze del Vescovo Coroneo, e di necessità essere i pronti rimedi da pigliare incontro a tal disordine; rinnovò in una sua Bolla de’ 23 di Giugno del 1536 tutto l’ordinato da Leone, suo antecessore; ed, esimendo i Greci tutti del regno da ogni mal imposta contribuzione, diresse quella all’Arcivescovo di Capua e a’ Vescovi di Castellamare, e di Capri, perché invigilassero all’osservanza di essa. Nè contento di ciò massime al Vicerè D. Pietro di Toledo raccomandò la difesa di queste popolazioni, e la conservazione, e libertà del rito greco in avvenire; da cui si vide due mesi dopo accettata la Bolla nel regal nome, e data ad osservare per le solite strade di regia esecuzione: quel, che rinnovò il medesimo, e in forma d’Imperial privilegio concesse agli stessi nell’anno 1543» ([13]).
In questo quadro, era abbastanza naturale che gli Albanesi d’Italia o Arbëreshë, come in seguito vennero definiti, non venissero visti di buon occhio. Venivano ritenuti solitari, scontrosi, inclini al furto e soprattutto all’abigeato, aggressivi e violenti e si diffuse ben presto l’impressione che era meglio stare alla larga da loro.
Nacquero, così, tra i “Latini”, modi di dire e proverbi non certo lusinghieri per gli Albanesi, che ancora oggi si ritrovano negli adagi dialettali di Sicilia e Calabria. Uno significativo è –tradotto in italiano- “se vedi un ghego e un lupo, spara al ghego e lascia il lupo” (in un altra versione è “… spara prima al ghego e poi al lupo”) dove per ghego si intende il geg, ovvero l’Albanese. Il pregiudizio è forte, data la pericolosità che veniva attribuita nell’antichità al lupo il quale, però, evidentemente, veniva considerato meno temibile di un Albanese.
Questi detti si tramandano ancora oggi nella cultura popolare di alcune regioni del Sud Italia, ma le persone che li ripetono neppure ne conoscono l’origine. Provano una diffidenza ed un’ostilità preconcette contro gli Albanesi e gli Arbëreshë, che sono state loro trasmesse da genitori e nonni ma che non hanno collegamenti con la realtà contemporanea: sono solo il frutto di antichi contrasti ormai scomparsi col tempo e della mancanza di conoscenze storiche sul passato della propria terra. Se, magari, studiassero di più, saprebbero che proprio dalla comunità arbëresh, quella comunità di cui tanto diffidano, sono venuti tanti intellettuali di prestigio, uomini politici e patrioti che hanno contribuito in maniera determinante a scrivere la storia civile e culturale dell’Italia dall’800 ad oggi. E, magari, smetterebbero di recitare quei proverbi antipatici nei confronti degli Albanesi e degli Arbëreshë.
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[1]) Gennaro Maria Monti, “La Spedizione in Puglia di Giorgio Castriota Scanderbeg”, in Iapigia : rivista pugliese di archeologia storia e arte , Anno X (1939), fascicolo III, pag. 286. Secondo altre fonti, il numero di uomini a disposizione di Giorgio era leggermente inferiore.
[2]) Cfr. Alfonso Barone, Antonello Savaglio, Francesco Barone – Albanesi di Calabria. Capitoli, Grazie e Immunità, (il ruolo della Chiesa e la politica dei Principi Sanseverino di Bisignano tra XV e XVI secolo), Montalto Uffugo (CS), 2000, passim.
[3]) Cfr, Domenico Zangari, Le colonie Italo Albanesi di Calabria – Storia e demografia (secoli XV-XVI), Napoli 1941, passim.
[4]) Il nucleo familiare sottoposto a tassazione.
[5])Francesco Capaldo, Di alcune colonie albanesi nella Calabria Citra, in “Archivio Storico Calabrese”, a. V, 1917, pp. 263-264 e Vincenzo Giura, La vita economica degli Albanesi in Calabria nei secoli XV-XVIII, in “Gli Albanesi in Calabria – Secoli XV-XVIII”, Edizioni Orizzonti Merdionali, 1988, pag. 76.
[6]) V. Giura, Note sugli albanesi d’Italia nel Mezzogiorno, in , pag. 3.
[7]) Ivi.
[8]) Vincenzo Giura, Vita economica e minoranze: due casi a confronto, in “Clio”, Anno XL, n. 3 (lug.-sett. 2004), pp. 544- 555.
[9]) V. Giura, La vita economica degli Albanesi…, cit., pagg. 83-84.
[10]) Giuseppe La Mantia (a cura di), I capitoli delle colonie greco-albanesi di Sicilia dei secoli XV e XVI, , Palermo, 1904, p. 27.
[11]) Gian Vincenzio Meola, Delle istorie della Chiesa Greca in Napoli esistente, Napoli, 1790, pag. 100.
[12]) All’epoca, era Papa Paolo III.
[13]) Gian Vincenzio Meola, Delle istorie…, cit., pagg. 100-101.