Nel luglio del 1990 centinaia di giovani si diressero, spinti dalla speranza di una vita migliore, verso le ambasciate come fossero la luce che li avrebbe guidati verso l’occidente.
I templi della speranza
All’epoca, le ambasciate straniere a Tirana non potevano essere aperte al pubblico come succedeva in tutte le altre parti del mondo: questo a causa dell’isolamento dell’Albania e dell’impossibilità per i cittadini di ottenere i visti per l’estero. Intorno ai mesi di aprile-maggio 1990 il governo inizia a concedere il diritto di ottenere un passaporto per recarsi a lavorare all’estero: tutto questo ha comportato lunghe file agli sportelli delle ambasciate. Per scongiurare il pericolo di assalti agli uffici delle ambasciate, il Ministero degli Esteri chiese al corpo diplomatico di organizzare pritje populli. Tuttavia ciò non fu sufficiente ad evitare, il 2 luglio 1990, l’invasione delle ambasciate da parte di cittadini che richiedevano asilo politico.
In ogni modo il cambio di regime era preannunciato dal caso dei fratelli Popa, anticomunisti perseguitati dal regime: il 12 dicembre del 1985, sei membri della famiglia Popa (quattro sorelle e due fratelli) entrarono nell’ambasciata italiana a Tirana fingendo di essere turisti italiani. I fratelli Popa erano stati brutalmente perseguitati per motivi ideologici e religiosi ed in quanto figli di un farmacista, che avendo studiato a Napoli fu accusato di collaborazionismo durante l’invasione fascista (13). Furono poi confinati nella campagna Kulle di Sukth e costretti a vivere in gallerie sotterranee prive di prese di luce naturale. Il gesto compiuto dai fratelli Popa scosse fino alle fondamenta, considerate sino a quel momento “indistruttibili”, il sistema totalitario e fece nascere nella coscienza degli albanesi l’idea che forse non tutto era perduto.
Sulla scia del Caso Popa altri tentativi di singoli cittadini si erano verificati anche prima del 2 luglio, ma erano rimasti episodi isolati. Nel frattempo erano tante le persone, arrivate anche dalle altre città, che passavano la notte nei parchi e nei giardini della capitale, osservando il comportamento delle ambasciate nei confronti di quei pochi che vi si erano rifugiati. Tranne l’ambasciata cinese e quella cubana, le altre avevano accolto generosamente gli “invasori”, ma si temeva comunque che questi potessero poi essere consegnati alle autorità albanesi. Era una convinzione diffusa che a giorni le ambasciate sarebbero state assaltate. Dopo l’ingresso, il 22 giugno, di un gruppo di giovani che con un camion spalancarono il cancello dell’Ambasciata Italiana, il Ministero degli Interni e la Direzione di Polizia di Tirana iniziarono a prendere le misure necessarie per impedire una, oramai più che probabile, fuga di eclatanti dimensioni.
Il 2 luglio 1990 verrà ricordato come la data in cui uomini, donne e bambini hanno rotto il lungo silenzio contro il regime comunista indirizzandosi verso le ambasciate per entrare nei “templi della speranza”. L’ingresso nelle ambasciate ebbe inizio in serata e fu un feroce scontro tra il popolo che tentava la via della “salvezza” e le forze di polizia che avevano ricevuto l’ordine di fermarli (14). Si può affermare che la liberazione del paese passò attraverso questa “fuga” verso le ambasciate: circa tremila persone si rifugiarono all’ambasciata tedesca; altre cinquemila in quelle italiane, francesi, greche, turche, polacche, ungheresi e slovacche
I vertici del Partito Socialista, scossi profondamente dagli eventi del 2 luglio, crearono una task force di emergenza per il controllo della situazione. Molti importanti funzionari dello Stato, tra i quali spiccavano il Ministro degli Interni e il Direttore Generale della Polizia di Stato furono rimossi dal loro incarico; tuttavia le misure adottate non riuscirono a porre rimedio alla situazione. Nei giorni che seguirono si verificarono vari casi in cui la gente scavalcando i muri e i cancelli entrava nelle ambasciate. Inizialmente questi eventi non furono fermati dalla polizia con l’intenzione di evitare uno scontro sanguinoso con il popolo, ma dopo un po’ di tempo la situazione diventò insostenibile per le stesse ambasciate le quali chiesero al governo di impedire i tentativi di rifugio presso le loro sedi.
Nel frattempo per coloro che già si trovavano nei locali delle ambasciate si attivò l’ONU nel tentativo di mediare con il Governo albanese affinché concedesse i visti per lasciare lo Stato. La presenza nel governo albanese di alcuni fedeli successori di Hoxha, fra i quali il Ministro dell’Interno che teneva in mano l’apparato della polizia, Simon Stefani, impedivano tuttavia una svolta postitiva delle trattative condotte dall’ONU. Il 7 luglio del 1990 il primo ministro Alia sostituisce Stefani aprendo così la strada ad una concreta soluzione della situazione creatasi nelle ambasciate (16). Nel tentativo di entrare con onore nella scena internazionale Alia permette il 9 luglio l’atterraggio a Tirana del Jet Tupolev 154, usato normalmente dal presidente cecoslovaco Valclov Havel, che aveva il compito di portare a Praga 51 cittadini albanesi ospitati dalla ambasciata di cecoslovachia (17). Questo avvenimento e l’intervento di diverse cancellerie diplomatiche europee hanno fatto sì che 4.803 profughi, di cui 2.000 rifugiati nell’ambasciata francese, 2.000 in quella tedesca e 803 in quella italiana, lasciassero il Paese il 13 luglio del 1990, partendo dal porto di Durazzo e sbarcando a Brindisi per essere poi successivamente trasferiti negli altri Stati che si erano offerti di ospitarli
Cenni sulla storia dell’immigrazione albanese in Italia, Orkida Mehillaj, 2010